Parere pro veritate

                                                                                   

Mi viene chiesto dal Comitato Veneto Indipendente di esprimere un parere circa il rischio penale legato ad una eventuale deliberazione in favore dell’ipotesi referendaria per interpellare il popolo veneto circa la propria volontà di divenire soggetto internazionale libero e sovrano, del tutto affrancato dallo Stato italiano.

Sono necessarie alcune premesse.

 

La prima è strettamente vincolata ai presupposti storici che, di fronte all’Italia ed al mondo intero, giustificano appieno un’aspirazione di tal fatta.

La Repubblica Veneta, ultramillenario Stato di diritto nel nome di San Marco – il cui Leone alato, simbolo tetramorfico, la rappresenta - ha espresso la propria fortissima sovranità per oltre millecento anni, ponendosi al centro dei traffici e della cultura europei e globali.

Centro di irradiazione di civiltà politica, artistica e giuridica, sempre all’avanguardia nelle soluzioni dedicate al vivere civile, lo Stato Veneto ha rappresentato un punto di riferimento costante nel corso del suo lungo e complesso arco vitale.

Esso ha connotato cospicua parte del Mediterraneo dei propri stigmi urbanistici e civili, lasciando di essi ancor oggi impronta ed imperitura memoria.

A tale genere di imprinting non è estraneo il formarsi di un popolo con precise caratteristiche linguistiche, di vita civile, rapporto con lo Stato, mentalità, collocazione dei confini tra vita pubblica e privata, idea di giustizia, di equità, di tutela della famiglia, di buon governo.

Che il buon governo sia legato esclusivamente ai rigidi schematismi generati dall’illuminismo è tesi che mostra, oggi più che mai, la propria decrepitezza e falsità.

Il ricordo di buon governo, di mitezza e di giustizia che la Repubblica ha lasciato indelebile nei territori da essa governati stride con il diffuso senso di ingiustizia ed iniquità, con la corruzione e gli insopportabili privilegi, con l’oppressione fiscale e la mortificazione del cittadino che sono oramai sotto gli occhi di tutti e appaiono sempre di più la caratteristica principale di un modello statuale, centralista ed autoritario, di importazione francese che in Italia non riesce né può funzionare.

Non è pertanto possibile sostenere che le ragioni della richiesta di indipendenza alberghino esclusivamente in egoistiche pulsioni economico-finanziarie.

È pur vero che, storicamente, quasi tutti gli Stati sono stati ripudiati per ragioni di oppressione fiscale. Perfino nei secoli che la vulgata illuminista ha erroneamente etichettato come “bui”, diffamandoli, il mezzadro o l’enfiteuta concedeva al proprietario non oltre il 50% del proprio raccolto (nella pratica era poi assai di meno). Invece una presunta democrazia, che afferma di essere composta di cittadini liberi, confisca loro oggi quasi il 70% delle risorse.

Il Veneto, poi, versa allo Stato italiano circa 75 miliardi di euro di tasse, dei quali ben 21 sono il residuo fiscale che s’invola per sempre verso altri lidi ed altre destinazioni.

Non vi è regione d’Europa (all’infuori della Lombardia e dell’Emilia) che versi in una situazione tanto penosa di sfruttamento. Non nel Regno Unito, non in Francia, non in Germania, dove la Baviera si duole di un residuo fiscale, a favore della Federazione, di 1 miliardo di euro.

L’idea, dunque, di riafferrare le redini del proprio destino e di rimettere in cammino una storia più che millenaria non solo è legittima, ma, per rappresentanti del popolo veneto quali sono i consiglieri regionali, addirittura doverosa.

Chi si rifiuti persino di prendere in considerazione il progetto di un rinato soggetto politico, sovrano, libero, ricco, pacifico, onusto di storia e cultura, non derivante da salvifiche costituzioni, ma da inveterata ed immensa tradizione, lo fa oggi solo per due ragioni alternative o, talvolta, cumulative: ignoranza e pregiudizio ideologico.

Non si tratta di ripudiare o tradire chi nei due secoli addietro ha creduto nell’Italia centralista e unificata secondo i princìpi della Rivoluzione francese, ma di prendere atto che quell’idea fu un’utopia, sull’altare della quale sono state versate milioni di vite innocenti, in guerre atroci e fratricide, ed un’infinità di risorse; si tratta di comprendere che è un modello che non ha mai funzionato e che oggi, privato delle funeste ideologie del dopoguerra, è persino privo di quell’esile piedistallo ideologico che lo sosteneva.

Oggi, continuare, imbelli, a versare 21 miliardi all’anno allo Stato italiano significa compiere un crimine verso i nostri figli, i nostri precari, le nostre aziende, il nostro territorio, il nostro immenso patrimonio culturale, per mantenere il quale dobbiamo – la beffa! - chiedere l’elemosina ad un’Italia in bancarotta.

 

La seconda premessa.

Recentemente, un noto costituzionalista ha tuonato dalle righe del Corriere della Sera, prospettando sciagure di natura penale per il Consiglio regionale che osasse tanto. Incalzato, il docente universitario ha citato genericamente i Delitti contro la Personalità dello Stato.

È bene subito ricordare che le norme in materia sono, pur con successivi ritocchi e restyling, un corpo normativo fascista. Varate nel 1930 (c.d. Codice Rocco) esse si caratterizzano per la presenza di una precisa idea di Stato e di Nazione quali soggetti giuridici da tutelare nel massimo grado, anche nei simboli, con una soglia di punibilità ampiamente anticipata. La maggior parte dei delitti che tali norme contemplano, infatti, non necessitano di un danno al bene giuridico tutelato, ma prevedono, quale elemento sufficiente per la loro perpetrazione, il solo pericolo, anche astratto, di lesione.

È un corpo normativo che tutela la personalità dello Stato (fascista) sia interna che internazionale, sia in guerra che in pace.  Sono, nell’intento del Legislatore del ’30, puniti l’idea, il proposito, il dissenso.

 

Osservazioni in diritto

L’economia del presente parere non è, ovviamente, quella di un trattato di diritto penale sostanziale, ma di una nota esplicativa. Di questa, dunque, avrà i caratteri dell’estrema sintesi e della decrittazione e semplificazione di concetti giuridici complessi.

Anticipiamo subito la conclusione: nessuno dei Delitti contro la Personalità dello Stato del codice penale italiano è applicabile alla fattispecie del consigliere regionale che si esprima a favore dell’ipotesi referendaria.

Il lungo lavoro di adattamento interpretativo posto in essere dalla Corte Costituzionale e dalla Corte di Cassazione in quasi settant’anni di elaborazione ha profondamente modificato i presupposti stessi per l’applicazione di tali norme. Il Legislatore stesso è più volte intervenuto nella specificazione di alcuni elementi essenziali di molte di dette norme.

Si sta trattando degli articoli da 241 a 313 del codice penale.

Innanzitutto, tutti i reati volti a tutelare l’Unità dello Stato necessitano oggi della violenza quale caratteristica essenziale del metodo con il quale si persegue il fine. E persino nel caso, più grave, della presenza di strumenti atti alla violenza e di elementi che provino l’intento eversivo con atti di violenza, l’unanime interpretazione giurisprudenziale richiede indefettibilmente il requisito dell’idoneità, anche astratta, del mezzo allo scopo.

La semplice determinazione di un corpo politico-amministrativo nega per definizione l’adozione della violenza nei mezzi e nei fini.

Si vedano i seguenti semplici esempi.

-                     L’art. 241 c.p. – Attentati contro l’integrità, l’indipendenza e l’unità dello Stato - punisce espressamente la condotta di chi compie atti diretti a menomare l’unità dello Stato ma, altrettanto espressamente, prevede che tali atti debbano essere violenti.

-                     Gli artt. 270 e 270 bis c.p. (Associazioni sovversive ed Associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico) sono connotati, il primo, dall’avverbio “violentemente” ed, il secondo, dal proporsi gli associati  “il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico”.

E persino in tale ultimo caso, anche in ossequio a fonti normative europee e convenzionali, la stessa eversione dell’ordine democratico finisce per confondersi con gli atti di terrorismo e, dunque, con ciò che rappresenta la quintessenza dell’idea stessa di violenza.

La sentenza di assoluzione dei Serenissimi (definitiva nel 2001) ed ancor più l’ordinanza del Tribunale del riesame di Brescia del 2014, nel procedimento a carico dei nuovi Serenissimi veneti e lombardi, sono, sul punto, inequivocabili e chi scrive svolse e svolge attività di difensore di alcuni imputati tanto nel primo quanto nel secondo processo.

-                     L’art. 271 c.p., che puniva l’Associazione antinazionale – ovvero quella di chi “promuove, costituisce, organizza, o dirige associazioni che si propongono di svolgere o che svolgano un’attività diretta a distruggere o deprimere il sentimento nazionale” – è stata dichiarata, anche su impulso di chi scrive, costituzionalmente illegittima nel corso del processo ai Serenissimi nel luglio del 2001.

-                     L’art. 283 c.p. – Attentato contro la Costituzione dello Stato – richiede anch’esso gli “atti violenti”.

Infine, i reati di vilipendio, drasticamente ridimensionati nel 2006, non hanno alcuna pertinenza con il caso di specie.

Mi sento, pertanto, di ribadire quanto sopra: nessuno dei delitti contro la Personalità dello Stato sarebbe applicabile all’azione politica del consesso rappresentativo della Regione del Veneto che indicesse un referendum dal valore consultivo in subjecta materia. Non lo sarebbe nemmeno se il Consiglio Regionale dichiarasse unilateralmente l’indipendenza del Veneto (non riguardando il mio parere la questione dello scioglimento del Consiglio che è misura politico-amministrativa e non penale).

A maggior ragione, il diritto penale della Personalità dello Stato è totalmente estraneo all’ipotesi della semplice deliberazione a favore di una consultazione popolare di carattere consultivo sul punto in esame.

Non comprendo, dunque, a quali norme penali facesse riferimento il noto costituzionalista di cui sopra, ma ritengo che ognuno, soprattutto ad elevati livelli scientifici, dovrebbe occuparsi della propria materia di elezione che, nel caso del professore, è il diritto costituzionale e non, per l’appunto, il diritto penale.

Tutto ciò non significa che un qualsiasi sostituto Procuratore della Repubblica non possa iscrivere una notizia di reato a carico dei consiglieri per fondare un’indagine circa la sussistenza di un qualsivoglia reato – allo stato non immaginabile ovvero immaginabile con infinita fantasia e con grado di assoluta infondatezza – per l’ipotesi della pronuncia del Consiglio.

Qui si vuol solo significare che, dal punto di vista squisitamente tecnico, la questione è di carattere esclusivamente politico e nient’affatto giudiziario.

E, in caso di avventurose iniziative della magistratura inquirente, la linea difensiva sarebbe immediata e rapidamente dimostrativa dell’estraneità assoluta di qualsivoglia fattispecie penale.

Il contrasto con l’art. 5 della Costituzione (la Repubblica è una e indivisibile) non genera di per sé condotte penalmente rilevanti. Se pure, infatti, l’azione in contrasto con l’art. 5 cit. potesse definirsi eversiva, oggi non è reato pensare eversivo, scrivere eversivo, progettare eversione, riunirsi per scopi eversivi. L’unico limite – è necessario ribadirlo – è il ricorso alla violenza che, condivisibilmente, fa scattare la repressione penale.

Senza contare che anche la dottrina costituzionalistica dovrà pur fare i conti con l’abnormità di un dettame costituzionale trasposto direttamente dalla Costituzione della Repubblica francese del 3 settembre 1791, da molti impudicamente considerato immodificabile. La pretesa di vincolare per sempre le generazioni future a quella che non è una norma che esprima – per dirla con L. Ferraioli – un diritto fondamentale[1], ma una situazione politica contingente, legata alle scelte hic et nunc di un consorzio umano, è la negazione della sovranità popolare e della democrazia, oltre a porsi in insanabile contrasto con il diritto di autodeterminazione che poggia su fonti internazionali sottoscritte dall’Italia medesima.

Del resto, note fonti di diritto internazionale fondano e riconoscono il diritto di autodeterminazione che non è limitabile a piacimento solo a luoghi della Terra dove avvengono fatti truculenti. Anche il solo brutale sfruttamento fiscale, in uno con la devastazione culturale, legittima il richiamo a quel diritto nei confronti di una realtà – l’Italia – divenuta indistinguibile da un regime coloniale.

Per quale ragione, nella medesima Europa, la Scozia, con tradizioni di sovranità e cultura  molto inferiori alla Venezia, potrebbe andare al referendum e non il Veneto? Perché l’Italia non lo consente? In tal caso dovrebbe ammettersi la vigenza di un regime illiberale. La qual cosa spero non si voglia affermare nel rispetto dell’Italia medesima.

Scozia, Catalogna, Paesi Baschi, Fiandre, Tirolo, sono regioni d’Europa che chiedono di recuperare il ruolo che ebbero per secoli, Gli Stati Nazionali, per queste terre, sono ormai una prigione con condanna all’ergastolo. Così è il Veneto, un tempo centro di un impero irradiato fino a Costantinopoli. Ogni negazione del diritto precostituzionale o meta costituzionale di autodeterminarsi si coniuga con una sola parola: tirannide; l’opposto della libertà e della democrazia.

Considerazioni semplici con le quali è necessario da subito confrontarsi.

 

Venezia, 7 giugno 2014

 

                                                                                                      Renzo Fogliata

 



[1] "Sono 'diritti fondamentali' tutti quei diritti soggettivi che spettano universalmente a 'tutti' gli esseri umani in quanto dotati dello status di persone, o di cittadini o di persone capaci d'agire; inteso per 'diritto soggettivo' qualunque aspettativa positiva (a prestazioni) o negativa (a non lesioni) ascritta ad un soggetto da una norma giuridica, e per 'status' la condizione di un soggetto prevista anch'essa da una norma giuridica positiva quale presupposto della sua idoneità ad essere titolare di situazioni giuridiche e/o autore degli atti che ne sono esercizio; L. Ferrajoli, a cura di E. Vitale, Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, Roma-Bari, Laterza, I ed., 2001, recentemente riedito nel 2008